Non si consoli con l’ingiustizia dei tempi. La loro ingiustizia morale non ci rende ancora giusti, non basta la loro disumanità a farci uomini solo in virtù del nostro dissenso
Boris Pasternak a Varlam Šalamov
9 luglio 1952
PROLOGO
Tamara sedeva davanti a un piatto con una frittata un po’ liquida e mangiava continuando a sognare.
Con gesti delicatissimi la mamma Raisa Il’inična passava un pettine rado attraverso i suoi capelli, cercando di non tirare troppo quel feltro vivo.
La radio vomitava una musica solenne, ma non troppo forte: dietro il tramezzo dormiva la nonna. Poi la musica tacque. Una pausa troppo lunga, quasi sottolineata. Poi si udì una voce che tutti conoscevano:
“Attenzione! Parla Mosca. Da tutte le stazioni radio dell’Unione Sovietica trasmettiamo una comunicazione del governo…”
Il pettine s’immobilizzò fra i capelli di Tamara, e lei si svegliò di colpo, inghiottì la frittata e con la voce un po’ impastata del mattino disse:
“Ma’, sarà qualche influenza del cavolo, e subito a tutto il paese…”
Non fece in tempo a finire, perché inaspettatamente Raisa Il’inična tirò il pettine con tutte le sue forze e la testa di Tamara si rovesciò bruscamente all’indietro, facendole battere i denti.
“Taci,” sibilò con voce soffocata Raisa Il’inična.
Sulla porta c’era la nonna, in una vestaglia antica come la Grande muraglia cinese. Ascoltò il comunicato radio con volto radioso e disse:
“Raisa cara, compra qualcosa di dolce da Eliseev. Oggi, fra l’altro, è Purim. Penso proprio che Samech abbia tirato le cuoia.”
Tamara allora non sapeva cosa fosse Purim, perché si dovesse comprare qualcosa di dolce e tanto meno chi fosse quel Samech che aveva tirato le cuoia. E, del resto, come avrebbe potuto sapere che nella loro famiglia Stalin e Lenin erano da sempre chiamati in codice con la prima lettera dei loro nomi di partito, “s” e “l”, e per giunta nell’arcana lingua antica: “samech” e “lamed”?
Intanto la voce più amata del paese comunicava che la malattia non era affatto un raffredore.

Galja si era già infilata la divisa e adesso cercava il grembiule. Dove l’aveva ficcato? Cercò sotto la cassapanca: per caso non era caduto là?
All’improvviso la madre fece irruzione dalla cucina con un coltello in mano e una patata nell’altra. Ululava con voce non sua, tanto che Galja pensò si fosse tagliata una mano. Ma non si vedeva sangue.
Il padre, che aveva sempre il risveglio difficile, strappò la testa dal cuscino:
“Che hai da urlare, Nina? Che hai da urlare di primo mattino?”
Ma la madre ululava sempre più forte, ed era quasi impossibile distinguere le parole nelle sue grida smozzicate:
“È morto! Che dormi, scemo? Alzati! Stalin è morto!”
“L’hanno annunciato?” il padre sollevò la grande testa con il ciuffo appiccicato alla fronte.
“Hanno detto che si è ammalato. Ma è morto, ti giuro che è morto! Me lo sento!”
Seguirono altre grida inintelligibili, fra le quali si fece largo una domanda drammatica:
“Ohi ohi ohi! E adesso che sarà? Che ne sarà di tutti noi, adesso? Cosa succederà?”
Il padre, accigliandosi, disse sgarbatamente:
“Ma che hai da sbraitare, scema? Cosa sbraiti? Peggio non sarà!”
Galja ripescò finalmente il grembiule: era proprio caduto sotto la cassapanca.
“Anche se è stropicciato, non lo stiro!” decise.