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1. Dicembre 1985, Boston
Ewa Manoukian
Ho sempre freddo. Anche d’estate sulla spiaggia, sotto il sole cocente, non mi abbandona mai questa sensazione di gelo alla spina dorsale. Forse perché sono nata nella foresta, in inverno, e ho passato i primi mesi della mia vita in una manica scucita dalla pelliccia di mia madre. Normalmente non sarei dovuta sopravvivere, perciò, se per qualcuno la vita è un dono, quella sono io. Peccato che non sappia se ne avevo bisogno, di quel dono.
Per alcuni la memoria di sé si accende molto presto. La mia comincia dai due anni, dai tempi dell’orfanotrofio cattolico. Per me, è sempre stato molto importante sapere che cosa accadde a me e ai miei genitori in tutti quegli anni di cui non ricordo niente. Qualcosa ho saputo da mio fratello maggiore, Witek. Ma in quegli anni lui era troppo piccolo, e i suoi ricordi, che poi ho ereditato, non bastano a ricostruire il quadro. All’ospedale riempì mezzo quaderno di scuola per raccontarmi tutto ciò che ricordava. Allora non sapevamo che nostra madre era viva. Mio fratello morì di setticemia all’età di sedici anni, prima che lei tornasse dal lager.
I documenti riportano come mio luogo di nascita la città di Emsk. In realtà quello è il luogo del mio concepimento. Dal ghetto di Emsk mia madre fuggì nell’agosto del 1942, al sesto mese di gravidanza. Con lei c’era mio fratello Witek, di sei anni. Io nacqui a un centinaio di chilometri da Emsk, nel folto di una foresta impenetrabile, in un insediamento segreto dove gli ebrei fuggiti dal ghetto sarebbero rimasti nascosti fino alla liberazione della Bielorussia, avvenuta nell’agosto del 1944. Si trattava di una formazione partigiana, almeno in teoria. In realtà, erano solo tre centinaia di ebrei che cercavano di sopravvivere in una zona occupata dai tedeschi. Immagino che, più che combattere contro i nazisti, quegli uomini armati difendessero la loro città di rifugi interrati, con le donne, i vecchi e i pochi bambini superstiti.
Mio padre (così mi ha raccontato molti anni dopo mia madre) era rimasto nel ghetto e lì era morto: alcuni giorni dopo la fuga tutti gli abitanti del ghetto erano stati fucilati. Mia madre mi ha detto che mio padre si rifiutò di partire, ritenendo che la fuga avrebbe solo esasperato i tedeschi e affrettato le rappresaglie. Allora mia madre, incinta, prese Witek e se ne andò. Di ottocento abitanti del ghetto, solo trecento si decisero alla fuga.
Nel ghetto erano stati rinchiusi gli abitanti di Emsk e gli ebrei dei villaggi circostanti. Mia madre non era un’abitante del luogo, ma non si era ritrovata da quelle parti per caso, essendovi stata inviata da Leopoli come agente di collegamento. Era una comunista fanatica. Aveva dato alla luce Witek nel carcere di Leopoli nel ’36: lo aveva avuto da un suo compagno di partito, mentre mio padre era un altro uomo, conosciuto nel ghetto. In vita mia non ho mai incontrato una donna meno portata per la maternità. Penso che io e mio fratello siamo nati esclusivamente per mancanza di mezzi contraccettivi e cliniche che praticassero aborti. Quando ero una ragazzina odiavo mia madre, poi per molti anni l’ho considerata con stupore e distacco, e ancora oggi sopporto a malapena di incontrarla. Il che, grazie a Dio, accade assai di rado. |