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Il padre del bambino, Aleksandr Sigizmundovič Levandovskij, dall'aspetto demoniaco e un po’ svalutato, con il naso adunco e densi riccioli che dopo i cinquant'anni, rassegnato, avrebbe smesso di tingersi, già da piccolo prometteva di diventare un genio musicale. Fin dall’età di otto anni l’avevano portato a esibirsi in varie sale da concerto, come il giovane Mozart, ma verso i sedici anni tutto si era bloccato, come se in qualche punto del cielo si fosse spenta la stella del suo successo, e giovani pianisti dotati di buone ma non straordinarie capacità avevano cominciato a superarlo, mentre lui, dopo essersi diplomato con lode al conservatorio di Kiev, a poco a poco si era trasformato in accompagnatore. Era un accompagnatore sensibile, preciso, si può dire unico, suonava con violinisti e violoncellisti di prim'ordine, che se lo contendevano perfino. Ma a lui toccava la seconda riga della locandina. Nel migliore dei casi scrivevano «al pianoforte», nel peggiore tre lettere: «acc.». E proprio questo «acc.» era il cruccio della sua vita, un costante pungiglione nel fegato. Secondo le concezioni degli antichi, pare sia proprio il fegato a soffrire più di ogni altro organo per l'invidia. Naturalmente nessuno credeva a quelle sciocchezze ippocratiche, ma il fegato di Aleksandr Sigizmundovič era veramente soggetto a coliche. Lui osservava una dieta e di tanto in tanto diventava giallo, stava male e aveva dolori atroci.
Veročka Korn lo conobbe nell'anno migliore della propria vita. Era appena stata ammessa al Teatro Studio di Tairov, non si era ancora guadagnata la reputazione di peggiore allieva, si beava di quelle lezioni interessanti e varie e sognava una parte da protagonista. Erano gli anni del crepuscolo del Teatro da Camera. Il massimo critico teatrale del paese non aveva ancora espresso la sua sacra opinione a riguardo, definendolo «autenticamente borghese» (l'avrebbe fatto alcuni anni più tardi), regnava ancora Alisa Koonen, e Tairov si permetteva davvero delle birichinate «autenticamente borghesi» come la rappresentazione delle Notti egiziane.
In teatro, come voleva la tradizione, festeggiarono il Capodanno del 1935 secondo il vecchio calendario, e fra le molte trovate con cui si divertirono gli immaginosi attori in quella lunga notte ci fu il concorso per il piedino più bello. Le attrici si mettevano dietro il sipario e sollevandone il bordo, a turno, castamente esponevano agli sguardi la gamba anonima dal ginocchio alla punta delle dita.
La diciottenne Veročka girò la caviglia in modo che il sapiente rammendo sul calcagno non si notasse e per poco non cadde svenuta per le dolci frizzanti sensazioni, quando la tirarono imperiosamente in scena e le misero un grembiulino su cui a grandi lettere argentee era scritto «Ho il piedino più delizioso del mondo». Inoltre le fu consegnata una scarpetta di cartone, fabbricata nei laboratori teatrali e piena di cioccolatini. Tutto ciò, compresi i cioccolatini pietrificati, si conservò poi a lungo nell'ultimo cassetto del secrétaire di sua madre Elizaveta Ivanovna, rivelatasi inaspettatamente sensibile al successo della figlia in un ambito che, secondo i suoi concetti, sconfinava dai limiti della decenza.
Aleksandr Sigizmundovič, arrivato da Pietroburgo in tournée, era stato invitato alla festa dallo stesso Tairov. L'aristocratico ospite non si allontanò da Veročka per tutta la serata e le fece una profondissima impressione; poi sul far del mattino, quando il ballo finì, con le sue stesse mani infilò sul piedino premiato uno scarponcino di feltro bianco, ardita variazione sul tema degli stivali contadini russi, ma con il tacco alto, e l'accompagnò a casa, in vicolo Kamergerskij. Era ancora buio, cadeva lentamente una neve che pareva finta, i lampioni emanavano una gialla luce teatrale, e lei si sentiva una primadonna su uno smisurato palcoscenico. Con una mano stringeva a sé le scarpette da sera numero 35 avvolte in un giornale, mentre l'altra mano era beatamente posata sulla manica di lui, che le recitava i versi fuori moda di un poeta in disgrazia |