La verità
è dalla parte della morte
Simone Weil

Dalla fine del XVII secolo in poi, tutti gli antenati in linea maschile di Pavel Alekseevič Kukockij erano stati medici. Il primo di loro, Avdej Fëdorovič, è menzionato in una lettera di Pietro il Grande del 1698, inviata nella città di Utrecht al professor Ruysch, alle cui lezioni di anatomia l'imperatore russo aveva assistito un anno prima, sotto il nome di Pëtr Michajlov. Il giovane sovrano gli chiedeva di accogliere come allievo, «di sua propria volontà», il figlio del farmacista Avdej Kukockij. Da dove venisse il cognome stesso dei Kukockij non si sa per certo, ma secondo una leggenda famigliare il progenitore Avdej era originario della località di Kukuj, dove al tempo di Pietro I era sorta la Nemeckaja sloboda, il borgo degli artigiani stranieri.
Da quel tempo il nome dei Kukockij s'incontra ora negli elenchi delle benemerenze, ora nei registri delle scuole istituite in Russia dopo gli ukaz del 1714. Alle persone «di basso lignaggio» che avevano frequentato queste nuove scuole il servizio statale apriva poi la strada alla nobiltà. Dopo l'introduzione della tabella dei ranghi i Kukockij appartenevano per meriti alla «migliore e più antica aristocrazia con tutte le dignità e i privilegi». Uno dei Kukockij era menzionato negli elenchi degli uditori del dottor Johannes Erasmus di Strasburgo, il primo medico occidentale che insegnò in Russia, fra le altre discipline mediche, «l'arte delle levatrici».
Fin dall'infanzia Pavel Alekseevič provava un segreto interesse per la struttura di ogni essere vivente. Talvolta (di solito accadeva prima di cena, quando veniva a crearsi un tempo indefinito, vacuo) riusciva a entrare di soppiatto nello studio del padre, e col cuore in gola prendeva dal ripiano centrale della libreria svedese, dai pesanti vetri scorrevoli, i tre preziosi volumi dell'enciclopedia medica di Platen, celeberrima a suo tempo, e andava a sfogliarli seduto sul pavimento, in un accogliente cantuccio fra la sporgenza della stufa olandese e la libreria. Alla fine di ogni volume c'erano delle figure pieghevoli di un uomo con le guance rosee e i baffetti neri e di una signora dall'aria rispettabile ma vistosamente incinta, con l'utero aperto per consentire lo studio del feto. E probabilmente proprio a causa di questa figura, che per tutti (non si scappa!) era semplicemente una donna nuda, lui nascondeva ai famigliari le sue ricerche, temendo di essere colto in flagranza di indecenza.
Come le bambine non si stancano di vestire e rivestire le bambole, così anche Pavel montava e smontava per ore questi modelli di cartone del corpo umano con i diversi organi. Dalle figure di cartone si sfilavano uno dopo l'altro il rivestimento di pelle, gli strati di rosea e gagliarda muscolatura, si estraeva il fegato, dal tronco elastico della trachea scattava in fuori l'albero dei polmoni, e infine si denudavano le ossa, tinte di un colore giallo scuro e dall'apparenza assolutamente morta. Come se all'interno del corpo umano si celasse sempre la morte, solo dissimulata da un velo di carne viva – su questo Pavel Aleksandrovič avrebbe cominciato a riflettere molto più tardi.