– E a te, Jason, – domandò Čik, – è mai capitato di uccidere un uomo?
Čik era sdraiato sull’alto letto della nonna e, sollevatosi un po’, guardava dalla parte opposta del salotto – così veniva chiamata quella stanza. Lì nell’oscurità quasi completa era coricato Jason. Jason fumava, e la brace della sigaretta, a ogni boccata, illuminava la sua guancia incavata, il naso corto e le grosse labbra. Fra Čik e Jason, al suo solito posto, era coricato zio Kolja, lo zio matto di Čik. Le imposte della finestra di mezzo erano aperte, e la luce del lampione dalla strada illuminava appena il letto e la testa rapata di zio Kolja.
In sala da pranzo dormiva zia Nataša, una lontana parente di Čik. In casa non c’era nessun altro, erano andati tutti al villaggio per un funerale…
Di solito Čik dormiva a casa sua, di sotto, al pian terreno. Ma quel giorno la nonna lo aveva lasciato lì, perché tenesse d’occhio lo zio. Quanto allo zio, avrebbe preferito che Čik non lo tenesse d’occhio, perché in casi del genere si tratteneva raramente dal prenderlo in giro.
Vero è che adesso, impegnato nella conversazione con Jason, non ne aveva alcuna intenzione. Il fatto è che Jason era un ladro. Tutti lo sapevano. In ogni caso, lo sapevano tutti i parenti. A casa loro passava di rado, talvolta restava per la notte e ripartiva sempre la mattina presto.
Fatta la domanda, Čik si mise in ascolto tutto teso, per non perdere neppure una parola. Ascoltando, lanciava occhiate attraverso la finestra di mezzo al lampione sulla strada, intorno al quale si affollavano falene e moscerini.
Jason non si affrettò a rispondere, in compenso nel silenzio risuonava ininterrottamente la canzoncina di zio Kolja. Prima di dormire, se era di buon umore, cantava sempre quelle canzoncine di sua composizione, senza parole di sorta, o più esattamente con parole inventate. Di tanto in tanto interrompeva la canzone e, sollevatosi un po’, guardava allarmato dalla parte di Čik per prevenire in tempo la sua ennesima marachella. Il fatto che fino a quel momento Čik non gli avesse giocato nessun tiro lo preoccupava, gli pareva indice di particolare perfidia.
– Vedo, vedo, – diceva dando a intendere che aveva indovinato le sue intenzioni e che l’avrebbe punito con sufficiente severità a tempo debito. Inoltre nel suo avvertimento Čik coglieva facilmente un’altra sfumatura. Era come se volesse farlo uscire allo scoperto: dài, diceva, se sei così coraggioso agisci al più presto, così me la vedrò con te, e ci sbarazzeremo l’uno dell’altro. Ogni tanto lanciava un’occhiata a Jason, cercando di indovinare quali parti avrebbe preso quello sconosciuto nel caso di uno scontro con Čik.
A dire la verità, Čik si preparava a lanciargli il gatto. A tale scopo l’aveva preso con sé nel letto, ma adesso, appassionatosi ai racconti di Jason, si era dimenticato dei suoi piani. Il gatto dormiva, comodamente sistemato sul lenzuolo con cui si copriva Čik.
Zio Kolja non sopportava gatti e cani. Provava nei loro confronti una furiosa avversione. Sembrava che non vedesse fra loro una particolare differenza. In ogni caso, generalizzando, chiamava gli uni e gli altri cani.